Le conseguenze dell’annullamento del permesso di costruire

Il permesso di costruire illegittimo, al pari di qualsiasi altro atto amministrativo, può essere annullato: ossia rimosso, posto nel nulla, come se non fosse mai stato assunto.

A ciò può provvedere o lo stesso Comune che l’ha rilasciato (d’ufficio o su istanza di un terzo, ad esempio un proprietario confinante); oppure il Giudice amministrativo, necessariamente su richiesta di un terzo che gli si sia rivolto lamentando di essere stato leso dal provvedimento comunale (ad esempio perché l’edificio assentito era troppo alto o troppo vicino).

Il T.U. dell’edilizia equipara l’opera oggetto del permesso di costruire annullato ad un’opera abusiva; e, in effetti, proprio tale essa è. Per effetto dell’annullamento, infatti, essa resta priva di titolo autorizzatorio; ciò contrasta con il principio generale per cui ogni trasformazione territoriale dev’essere preventivamente assentita dal Comune che, in tal modo, ne verifica la conformità alla disciplina urbanistico-edilizia (c.d. conformità sostanziale).

L’ipotesi, piuttosto spiacevole, è regolata dall’art. 38 del T.u.. Esso mira a contemperare due interessi diversi e confliggenti: da un lato, quello del proprietario destinatario della sanzione pecuniaria (che ha confidato nella legittimità del titolo edificatorio illegittimamente rilasciato, pur diligentemente richiesto al Comune); dall’altro, quello dello stesso Comune, che è riferito sia alla tutela del proprio assetto territoriale (quello che esso stesso ha stabilito in sede di pianificazione), sia alla correttezza delle proprie procedure amministrative (che, se sbagliate, devono essere corrette).

Ebbene, in base alla predetta norma, annullato il titolo edificatorio il Comune ha un itinerario obbligato:

  1. anzitutto, se l’annullamento era dovuto a un errore procedimentale (ad esempio la mancanza di un parere o di un atto presupposto), esso deve correggere l’errore “bonificando” il procedimento. L’operazione porta all’emissione di un nuovo provvedimento abilitante (c.d. convalida); esso, questa volta, è legittimo perché immune dal vizio che ne aveva decretato l’annullamento. Questa soluzione consente ai due interessi confliggenti dianzi citati, quello del Comune e quello del costruttore, di convergere su una soluzione che li soddisfa entrambi e che, oltre tutto, è sostanzialmente a “costo zero”;
  1. se, invece, il procedimento amministrativo era corretto e l’annullamento era dovuto a ragioni sostanziali (tipicamente il contrasto dell’atto, quindi dell’opera, con lo strumento urbanistico), allora – non essendo possibile la convalida – deve ordinare la demolizione dell’opera. In questo caso l’interesse del Comune al proprio territorio e alle procedure è salvo, ma non anche quello del privato, che in sostanza viene a subire la perdita del bene a causa di un errore che non necessariamente è stato da lui cagionato; potrebbe dunque configurarsi un danno risarcibile, del quale potrà chiedere ristoro al Comune (ricorrendone i presupposti); la conclusione esposta deriva dalla sentenza n° 17/2020 con cui l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 [del T.U.ed.] sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione» e non anche quelli prodotti dalla violazione della disciplina urbanistico-edilizia;
  1. infine, se non è possibile né la rimozione dei vizi del procedimento, né la demolizione, allora deve applicare una sanzione pecuniaria di ammontare pari al valore venale dell’opera (c.d. fiscalizzazione dell’abuso); il pagamento della sanzione, però, anche se in concreto gravoso regolarizza l’opera, che può così essere conservata.

In ogni caso il Comune deve spiegare molto bene le ragioni della scelta adottata nel caso concreto; l’atto, naturalmente, se illegittimo è impugnabile al T.A.R..

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